giovedì 28 febbraio 2008

CHICKEN LITTLE

Periodo troppo incasinato per riuscir a scrivere qualcosa.
Per ora si va avanti con le recensioni di repertorio (cioè quelle scritte e non ancor pubblicate!)



Ascolto troppa musica e vedo troppi film.
O perlomeno è troppo per la mia testa.
Quando parlo di musica o di cinema finisce sempre che sto citando qualcuno e finisco per andare su qualcos’ altro e mentre cerco di recuperare quello che stavo dicendo mi viene in mente che non ho ancora finito di parlare del secondo argomento.
Voi ridete ma non è bello.
Mi capita di non capirci più una mazza.
Sono li che sto cercando un film su imdb e finisce che ne cerco un altro perché ho visto un attore che forse mi ricorda alla lontana quell’ altro che c’ era in un film che vidi quando ero bambino.
E il primo film che stavo cercando?
È andato perso nella mia memoria.
Ha voglia Jerry Scotti di incitare i suoi concorrenti ad aprire i cassettini della memoria.
I miei cassettini strabordano di robaccia che molti butterebbero nella spazzatura.
Filmacci di serie b, musica pop, rock, elettronica tutto buttato insieme.
Sono una persona ordinata.
Nella mia camera non troverete magliette sparse ovunque o oggetti vari sparsi sul pavimento.
Eppure nella mia testa non riesco a ricreare quell’ ordine: tutto si accavalla, si mescola, si fonde e finisce che io non so nemmeno di cosa si stia parlando.
Inizio una recensione di Chicken Little e mi ritrovo a parlare della mia confusione interna che all’ esterno comunque non si vede: non pensate a me come un pazzo disperato vestito di nero che si lamenta della sua vita.
Sono un ragazzo felice, ottimista e con un sacco di passioni che mi girano per la testa e non sanno fermarsi.
La confusione è solo interiore.
Ma forse non c’ è nemmeno li.
E con Chicken Little questo centra poco o nulla.
O perlomeno, all’ inizio qualcosa centrava ma poi avete avuto una dimostrazione delle mie divagazioni e forse sono riuscito a farvi perdere con me.
Ma ritorniamo all’ inizio.
Tutto quello che vi volevo dire è che in realtà non ricordo quando vidi Chicken Little, non ricordo l’ anno in cui uscì così come moltissime volte mi capita di non ricordare il titolo di una canzone che riconosco solo ascoltandola.
Io di dati tecnici ne ricordo ben pochi, questo è sicuro.
Eppure mi ricordo cose immensamente più inutili: mi viene in mente, ad esempio, il perché della mia scelta quella volta che andai al cinema per vedere questo polletto.
C’ era quella canzone pochi anni fa (ovviamente non ricordo quanti!) che fece uscire di testa tutti durante l’ estate.
Era il cosiddetto tormentone estivo su cui Studio Aperto potrebbe fare milioni di servizi e che comprendi esserlo quando senti un bimbo di 3 anni a fianco a te che ne canticchia il ritornello con parole inventate.
Quell’ anno il ritornello faceva una cosa tipo: numa numa ie, numa numa numa ie… e poi si perdeva in parole incomprensibili che non sapevo allora e non vedo come potrei ricordare ora.
Mi è venuto in mente.
“Dragostea” era la cantante.
Si diceva fosse un travestito da noi a scuola, si diceva anche che la canzone era un plagio (o una cover) di qualcuno di ancor meno conosciuto fatto sta che un mio cassettino strabordante mi suggerisce che la song (mamma mia che brutto termine) andò persino a Sanremo.
Era passato comunque un po’ di tempo (penso qualche anno) dalla sua uscita e ricordo che in tv passò il trailer di questo minipollo in digitale che ballava la canzone di Dragostea.
Non potete immaginare il delirio di demenza che provocò in me e nei miei amici che avevamo preso in giro per anni gli ascoltatori esaltati di questa bruttura quando vedemmo il trailer.
Tra le cose più assurde (che comunque faccio ancora) ricordo un messaggio che mandai a un caro amico chiedendogli se aveva visto il polletto che ballava.
Si.
Appena “Chicken Little” fece la sua comparsa nelle sale ci precipitammo a vederlo.
Appena “Chicken Little” finì uscimmo infuriati dalla sala.
Quel maledetto polletto ci aveva preso in giro.
Innanzitutto lui non ballava per tutto il film ma soprattutto Dragostea non si sentiva neanche per un secondo!
Ricordo quello e poco altro di quella mia prima visione.
Ricordo come al cinema rimanemmo abbastanza esterrefatti dalla brutta grafica (insomma io avevo ancora in mente “Alla ricerca di Nemo”!), dalla storiella abbastanza banale e soprattutto dal fatto che uscimmo dalla sala al secondo spettacolo prima di mezzanotte.
Neanche 1 ora e mezza per 6, 50 euro.
Non che giudichi un film dalla sua lunghezza, non vado un tot al chilo come il Carrefour che vende i libri al chilo (“Mi dia 3 etti di Dante!” “Con il paradiso sono 5 tengo?” “No, no tagli pure!”) ma questo sommato a tutto al resto provocò in me non poca rabbia.
Eppure un bel ricordo mi era rimasto.
Era Aldino Cotechino (un maiale sproporzionatissimo) che ballava delle canzoni anni ’80.
Ed è solo per quello che mi sono rivisto “Chicken Little” per la seconda volta 2-3 giorni fa.
In fondo un’ oretta per un filmetto non la si nega a nessuno.
E sinceramente vi dirò: non sono rimasto così deluso come credevo.
Sono partito con altre aspettative ben sapendo che Dragostea non c’ era e che il filmetto non può essere assolutamente paragonato ai capolavori Pixar e ne sono uscito abbastanza bene.
Mentre mi preparo ad abbassare i voti di “Bee Movie” e "Shrek terzo” (forse quando leggerete li avrò già abbassati) che comprendo di aver forse sopravvalutato devo ammettere che Chicken Little raggiunge la sufficienza in pieno.
È la prima pellicola della Disney senza l’ amata Pixar (al tempo mi pare si cominciò a parlare di un imminente divorzio) a cui seguirà il già recensito “I Robinson- Una famiglia spaziale” e nonostante le molte pecche il filmetto si fa guardare volentieri.
Diciamolo chiaramente: “Chicken Little” manca delle grandi storie della Pixar, manca di una grafica eccelsa, manca di molte cose eppure ha comunque quel tocco in più che la Dreamworks spesse volte (credo non esista in italiano) non riesce a dare.
Perchè in fondo “Chicken Little” la dove non riesce a raggiungere i limiti della Pixar cerca di sopperire con una miscela un po’ spartana tra la citazione tipica della Dreamworks (il film ne è pieno: dalla trama a la “Guerra dei mondi” a “Et”, “Signs” e decine di altre leggermente più nascoste ma neanche tanto) e la classica narrazione Disneyana tra canzoncine leggere e malinconiche (ma perché hanno doppiato in italiano una canzone di Elton John??) e un personaggio bambino che cerca riscatto e credibilità in un mondo adulto abbastanza cattivello.
In questo senso la pellicola si vorrebbe quindi guardabile sia da un pubblico più adulto capace di intendere tutte le citazioni sia da un pubblico più piccolo capace di apprezzare le simpatiche gag dei protagonisti e le canzoncine anche se alla fine a prevalere sono almeno per questa volta i più piccoli (per fortuna o no decidetelo voi! È un fatto che comunque la pellicola seguente in assolo della Disney, “I Robinson”, segua ancor di più la linea bambinesca e forse da qui si poteva intendere la linea della casa di Topolino se la Pixar si fosse allontanata definitivamente).
Di apprezzabile c’ è poi il fatto che la casa di Topolino si diverte a creare due finali di cui uno posto esattamente a metà pellicola che chiuderebbe un filmetto identico a una qualsiasi storiella di Topolino se non fosse per il 3d.
E poi c’ è Aldino Cotechino.
Ora voi crederete che io sia matto e molto probabilmente ne avete tutte le ragioni eppure io non riesco a non ridere di fronte a un maialino grassissimo che cammina su due zampette minuscole e canta “I Will Survive” mentre fugge in macchina.
Insomma è un maialino grasso!
E balla della canzoni anni ‘80!
Cosa volete di più dalla vita?

Ascolto troppa musica e vedo troppi film.
Eppure quando riesco ad apprezzare anche cose come “Chiken Little” mi sento come un bambino che ancora deve vederne di film e sentirne di musica.
Sinceramente sono contento di sentirmi così.
Spero di sentirmi così tutta la vita.
In grado di vedere e ascoltare tutto e apprezzare molto.
Quando non mi sentirò più così smetterò di scrivere e se mai dovessi diventare uno di quei critici spocchiosi che criticano l’ ultimo film di Stallone perché privo di quella sobrietà che faceva del primo Rocky (o Rambo) un classico del cinema americano vi prego di pregarmi di smetterla.
Sarò solo ridicolo.
REGIA: Mark Dindal
ANNO: 2005
GENERE: Animazione
VOTO: 7
QUANTO ASSOMIGLIA A FONZIE IL RICCIO E QUANTO FA RIDERE WALTER VELTRONI CHE DOPPIA IL TACCHINO SINDACO (E DA ALLORA OGNI VOLTA CHE LO VEDO PENSO AL TACCHINO!): 10
CONSIGLIATO A CHI: ha un oretta e qualcosa in cui non sa che fare!

Il mitico trailer con Chicken Little che balla la canzone di Dragostea!

domenica 24 febbraio 2008

RAMBO- JOHN RAMBO

Abbassiamo i toni.
Passiamo da Bergman a Rambo.
Perdiamo un po' di credibilità.



“Il petroliere”?
Ma va l’han tolto dopo una settimana dai cinema di Alessandria.
“Non è un paese per vecchi”?
Ma per carità, ci sarà tempo! Chissà quanto lo tengono (come “Il petroliere”…)
“Sweeney Todd”?
Anche lui avrà tempo di essere visto!
Muccino?
Siete impazziti?
Il sabato sera si va a vedere lui.
Unico, inimitabile Rambo.
Il classico film che mentre sei in pizzeria pensi già a quante teste farà saltare, quanti elicotteri tirerà giù con il machete e quante foreste abbatterà con un coltello.
Rambo!
Non dico mica Van Damme, Seagal, Vin Diesel, Terminator, Predator.
Dico Rambo.
E Rambo già solo per il nome pretende rispetto.
Di quel rispetto che meritano quel genere di film.
Quelli che se vedi oggi “Rambo III” ti chiedi se lo sceneggiatore era un malato di mente o aveva degli evidenti problemi di alcolismo da risolvere abbattendo elicotteri nella sua testa.
Lasciate perdere il primo Rambo.
Serio, pochi morti, qualche riflessione azzeccata e un sacco di merda finitagli addosso per i due seguiti.
Prendete “Rambo II” e soprattutto “Rambo III”.
Quelli si che sono veri action anni ’80.
Psicologia dei personaggi inesistente, storia sempre uguale e un immortale montagna di nervi come protagonista.
Quelli si che sono i film con cui sono cresciuto: andavo in giardino, prendevo un ramo e dicevo “Sono Rambo, morite tutti!”
Prendete Rambo e trasferitelo nel 2008.
Uno Stallone ormai più simile a un frigorifero con la testa che a un umano, un ambientazione un po’ giunglosa, tanti nemici cattivissimi e crudeli e tutto quel che volete e ovviamente IL personaggio.
Lui.
Rambo.
Che ovviamente si è ritirato e non ne vuol più sapere niente.
Che ovviamente è sperso in un paese non suo.
Che ovviamente fa il barcaiolo e il battitore di ferro (mai visto un barcaiolo con dei muscoli così!) per esorcizzare i suoi demoni.
E che ovviamente alla prima volta che apre bocca manda allegramente a fanculo chi gli chiede di aiutarlo.
Ma Rambo nonostante i problemini di cui soffre nelle parti basse (dichiarazioni di Stallone) non può resistere al richiamo della guerra.
Perché lui è LA Guerra.
E nonostante gli si chieda solo di far da barcaiolo lui nella sua testa bidimensionale da videogioco del Super Nintendo sa già che farà la guerra, ovviamente da solo.
Contro chi?
Ma che importa, l’ importante è farla!
Missionari cristiani idioti come delle patate si avventurano nella profonda Birmania nonostante gli avvertimenti del mascellone e ovviamente vengono rapiti.
E qui Rambo, finora solo barcaiolo e assassino di tre personaggi inutili, ritorna davvero.
Parte con un gruppo di mercenari e quando un tizio dice che hanno solo 15 minuti per la missione già si cominciano a sentir delle voci che dicono: “Vedrai che Rambo non riesce a tornare in tempo e deve cavarsela da solo!”
Ma certo!
“John Rambo” non tradisce nessuna aspettativa.
Tu pensi una cosa e lui la fa, come nel migliore dei videogiochi.
Tu pensi che ritarderà per salvare la bella di turno che ovviamente lui la guarda male tutto il tempo ma comunque lei è bella e prende le parole di un decerebrato a forma di frigorifero come se fosse la bibbia mentre lui non sa nemmeno quel che dice e lui ritarda.
Tu pensi che si inventerà qualche trucchetto nella giungla per far saltare qualche testa e ovviamente lui mette una bomba che si rivela essere atomica dato che salta per aria mezza Birmania mentre lui corre e si rotola con la maglietta ormai sporca e distrutta ma sempre molto Rambosa.
Tu pensi che prima o poi prenderà il mitragliatore che fa budda budda (i mitragliatori di Rambo fan sempre budda budda!) e lui riesce ovviamente ad appropriarsi di una mega fabolous plus ultra mitragliatrice fissa che ha i colpi infiniti come nei videogiochi.
E il film si trasforma in una mitraglia.

Già, perché se finora Rambo ha giochicchiato con qualche pistola e una bomba atomica, dal momento in cui entra in scena la mitraglia non c’è più posto per nessuno.
20 minuti di un frigorifero che spara a chiunque, ovunque, sempre e comunque.
20 minuti in cui vedi la faccia di Stallone piegarsi più e più volte alla ricerca di una espressione che sia una mentre urla tutta la sua rabbia con grugniti e e cose simili.
E partono gambe, teste, braccia, budella.
Perché Rambo nel 2008 diventa uno action splatter.
Non siam più negli anni ’80 in cui il sangue anche nel peggio Predator si faceva sempre fatica a mostrarlo, siam nel 2008, e nel 2008 il sangue lo vedi ogni giorno alla tv.
Senti budda budda budda budda budda budda budda budda e vedi persone che volano via come fuscelli mentre ovviamente i buoni si salvan tutti e quando all’orizzonte vedi arrivare un esercito intero ti pieghi in due sulla poltroncina e preghi che finisca presto perché la tua pancia non può sopportare ancora a lungo questa ilarità convulsa.
E invece no.
L’ esercitò lo vedi spazzato via in un nanosecondo e a quel punto capisci che è ora che è arrivi l’ elicottero.
Ma l’ elicottero nella giungla non arriva.
C’è la barca.
Si abbatte un albero intero in una delle scene più spassose e fanculo anche alla barca che esplode come se fosse un petardo di capodanno.
E il coltello.
Stallone (anche alla regia) si ritaglia un ultima scena da Oscar in cui prima trafigge il nemico in cima alla collinetta con un inquadratura studiata per ore (beh Stallone l’ avrà studiata per ore, i due neuroni han lavorato a pieno ritmo!) e poi si ricorda che siam nel 2008: e via di sangue e budella e “buah, splash, sgnic, sgnac”
Sei ancora li che ti stai rotolando sulle poltroncine e vedi Rambo che ritorna a casa, ancora una volta.
Musichetta trionfale riadattata e il reduce ritorna nella sua magione dove ovviamente i cavalli si son nutriti di aria per anni.
Lo guardi di schiena mentre passano i titoli di coda, pensi alla regia di Stallone che fa di tutto per far vedere l’ impegno che ci ha messo (inquadrature coperte da ostacoli vari o scene epilettiche molto anni 2000), pensi alle scene in cui magicamente la luce del sole cambia da un secondo all’ altro, pensi agli attori (non è vero, c’è solo lui!), cerchi di pensare a qualcosa ma non ci riesci.
Guardi quell’ armadio a quattro ante con la testa e le tette più grandi di quelle della Bello e pensi che di gente così c’è n’è poca.
Di nonni così ce ne sono ancora meno.
Di Rambo c’è n’è solo uno.
Per fortuna.
Pensa quanti colpi di mitragliatore dovrebbero produrre altrimenti!

REGIA: Sylvester Stallone
ANNO:2008
GENERE: Action
VOTO: 6,5 (da quel che ci si aspettava ma se non fosse per il nome potrebbe benissimo essere uno di quegli action tedeschi che si fa fatica a sopportare fino in fondo!)
QUANTO LO ASPETTAVO: 10
CONSIGLIATO A CHI: solo ai fan di Rambo!Gli altri non possono capire, e forse neanche i fan!

domenica 17 febbraio 2008

DEEP PURPLE- MADE IN JAPAN_REMASTERED EDITION 2CD



L’altro giorno ho risentito una mia compagna delle medie che non sentivo da 8 anni circa.
Certo una volta o due ci si era visti di sfuggita, un saluto, un “come va?” di circostanza, ma niente di più.
Poi pochi giorni fa capita che la trovo su msn.
Si quel posto infimo che cerco di frequentare il meno possibile dato che ogni volta che mi collego inizio a sentire trilli di qua e di la che mi avvertono dei messaggi che tutti quelli che conosco devono mandarmi.
Si passa dai “Come va?” di gente che fatico a sopportare (ormai credo che vivano di fronte al pc in attesa che qualcuno si colleghi a msn per riempire il vuoto delle loro esistenze) ai soliti amici che mi aggiornano sulle novità burlesche di questo mondo.
E poi c’è questa ragazza che non vedevo e sentivo da anni.
Due o tre scambi di riscaldamento e poi inizia una vera e propria discussione su qualsiasi cosa.
E mentre penso a come sia incredibile ritrovarsi dopo così tanti anni e ricominciare a parlare come e meglio di prima penso a “Made in Japan”.
Associazione strana lo so, ma io sono quello che ha citato Chicken Little per spiegare meglio “Into the wild”, non potete pretendere che diventi normale tutto d’un colpo.
Penso a quando presi “Made in Japan” e dopo averlo ascoltato due- tre volte lo misi nella mia bella pila di cd (ormai sono pile e pile) a prendere polvere mentre pensavo: “Si bello bello, però che palle ste canzoni da 10 minuti con 6 minuti di assoli…”
Pazzo!
Io ero completamente pazzo!
Mi ero bevuto il cervello, non sapevo quel che dicevo, il nu metal (mamma mia che brutta parola) mi aveva succhiato via il cervello come fanno gli alieni nei film di fantascienza degli anni ’50!
Ero diventato uno di loro!
Poi la cura: rock italiano, grunge, metal, folk e finalmente hard rock.
E finalmente Deep Purple.
E finalmente Made in Japan?
No.
Non ci riprovai con Made in Japan.
Ero rimasto scottato da quella prima volta e lo lasciai li a prendere ancora più polvere mentre i cd crescevano e crescevano e crescevano.
Poi un mese fa lo ripresi in mano.
“Made in Japan”, vediamo se faceva così schifo come pensavo.
Ero totalmente fuori di testa quando dissi che un disco del genere non meritava più che la sufficienza.
È l’ unica spiegazione possibile.
Perché quando un mese fa ho inserito il cd nel lettore in macchina sono andato in cortocircuito.



Made In Japan non è un disco eccezionale…è di più!
È incredibile, è fenomenale.
Made in Japan è oro.
E mentre il cd mi riempiva le orecchie, il corpo, il cuore in macchina mi sono chiesto quanti live ho ascoltato a questi livelli di un gruppo negli ultimi 10-15 anni.
E mi sono risposto immediatamente: nessuno.
Nessuno ha pubblicato un live del genere negli ultimi 15 anni perché nessuno è in grado di fare una cosa del genere.
E non mi riferisco alle scale di Blackmore, agli assoli di Jon Lord alla pianola o alla batteria di Ian Paice.
Mi riferisco al tutto.
Perché “Made in Japan” non è suonato da un batterista, un bassista, un chitarrista, un uomo al piano e uno alla voce.
“Made in Japan” è suonato dai Deep Purple.
E i Deep Purple non sono la somma di componenti ma un qualcosa che va oltre.
Va oltre ogni cosa.
Va oltre il concetto di gruppo, va oltre l’ hard rock, va oltre il rock, va oltre il concerto, va oltre il disco.
Va oltre.
Made in Japan è un esperienza, ma è un esperienza che potrebbe provocare gravi turbamenti.
Qui (nel 1972 in Giappone) c’ era gente che sul palco vedeva le note.
Le vedeva e le inseguiva, le inseguiva e le catturava, le catturava e le offriva al pubblico.
Non si spiegano altrimenti certi assoli, certi acuti, certi suoni.
Ascoltate Blackmore nelle sue scale incredibili, sentite la sola batteria di Paice in “The Mule” per 10 minuti , porgete l’ orecchio alle armonie di Lord e spaventatevi di fronte agli acuti di Gillian.
Poi rimettete su il disco e sentite quel che combina Paice mentre i suoi compagni improvvisano: li segue, li rincorre, li prende, ne detta il ritmo e a sua volta ne viene influenzato.
Ascoltate quel che combinano Blackmore e Gillian in “Strange Kind Of Woman” dove chitarra e voce si scambiano i ruoli.
Meravigliatevi di fronte alla pianola di Lord che fa da sottofondo perfetto ad ogni singola nota e rimanete a bocca aperta di fronte al gran lavoro sotterraneo di basso di Glover.
Infine rimettete su il cd chiudete gli occhi e cominciate ad impazzire di fronte ad una marea di suoni che vi travolge come un onda impetuosa.
“Made in Japan” è più di un disco.
Più di un live registrato.
“Made in Japan” è il rock.
E mentre penso a quanti dischi mi dovrò riascoltare che un tempo avevo scartato ricomincio a pensare alla mia vecchia compagna, penso a quando una volta ci picchiavamo a scuola.. e mi viene in mente che alla fine anche con lei sono stato così: prima la trattavo male e ora ci si confida come due amici che si conoscono da una vita, almeno credo.
Sarò scemo?
AUTORE: Deep Purple
ANNO: 1972
GENERE: Hard rock
VOTO: 10
QUANTO è PAZZESCA LA VOCE DI GILLIAN: 10
CONSIGLIATO A CHI: A ogni persona che pretende di saperne qualcosa di rock.

giovedì 14 febbraio 2008

E.T. THE EXTRA-TERRESTRIAL-- E.T. L' EXTRATERRESTRE

Da Psyco a "E.T." in un solo passo.
Senza nessun pudore.
Perdonate la recensione frammentaria ma sono ancora abbastanza sconvolto dalla visione e volevo sapere cosa poteva venirne fuori, il risultato lo trovate qui sotto!
A voi il giudizio!
Buona lettura!
PS:un ringraziamento speciale a chi me ne ha imposto la visione! Grazie!



“Ah ma ti piace Spielberg? Ma allora non capisci un cazzo di cinema!”
Ma certo!
È così che si ragiona!
Cosa sono tutti questi effetti speciali, queste gran produzioni, queste storie fiabesche?
Il grande cinema, quello vero, non ne ha bisogno!
Bastano inquadrature strambe e simbolismi sparsi un po’ ovunque (o letti un po’ ovunque che è anche peggio!) per fare un gran film!
Altro che Spielberg e le sue favole da bambocci!
Cosa potrà mai darti uno Spielberg che un film di Caio Sempronio gran regista sotterraneo della nuova scuola realista dell’ Uzbekistan non è in grado di darti?
“Ti piace Spielberg perché sei nato con il mito dell’ America e Steven ne è un simbolo quindi è da abbattere perché tanto non è capace a dirigere!”
“Ma l’ hai visto E.T.?”
“Ma certo che si, ma una cosa del genere può piacere solo quando sei bambino! È una cazzata immane! Gli alieni, i bambini… ma dov’è il significato, dov’è la camera nascosta in un pacchetto di patatine, dov’ è il grande attore sconosciuto da lodare? Ma guarda che davvero non ne capisci un cazzo di niente di cinema!”



Eccoli li.
I critici seriosi del cinema.
O perlomeno quelli che si credono tali.
Gente che ha visto una manciata di film in più rispetto a qualcun altro e ora crede di poter passare sopra a tutto come un carro armato perché loro sono esperti.
Non sono più appassionati di cinema.
Sono grandi conoscitori della settima arte, ne conoscono trucchi, segreti e difetti.
E non si stancheranno mai di screditare i film di Spielberg.
“Perché Spielberg ha prodotto qualcosa di buono fino al 1977 poi più nulla”
Vi diranno.
Diffidate.
Diffidate di persone che non riescono ad emozionarsi con un film come E.T. perché non sono persone.
Sono “Emilio è il meglio” che tentano di passare per umanoidi esperti di cinema.
E molte volte ci riescono.
Non avevo mai visto “E.T.”
Lo ammetto candidamente.
Avevo visto spezzoni alla tv, immagini, giocattoli, figurine ma mai il film di Spielberg per intero.
Non perché fossi pazzo.
Semplicemente perché da bambino non me ne capitò mai l’occasione e quando divenni leggermente più grande ormai mi dicevo troppo cresciuto per questo genere di pellicole.
A 15 anni ci si beve il cervello.
Ci si dice: “Ormai sono grande, cosa cazzo guardo E.T.? Ma figurarsi guardo Van Damme che tira i calci che è molto più figo! E.T. lo lascio ai bambocci!”
Povero me.
Un povero quindicenne paragonabile a quegli esperti di cinema privi di emozioni che credono di camminare sulla testa delle genti.
Beati i bambini che possono vedere un film come questo da piccini.
Spielberg fa sognare.
È inutile che io stia tanto qui a parlarvi dei suoi temi ricorrenti come il padre mancante e il netto strappo tra il mondo degli adulti e dei bambini che può essere ricucito solo grazie all’ intervento di un elemento esterno.
Forse ne parlerà un giorno Leo in una recensione dato che è molto più bravo di me in queste cose.
Io volevo parlarvi dello Spielberg sognatore.
Quello che ti fa sedere di fronte allo schermo e ti avvolge in un caldo abbraccio fino alla fine della pellicola.
Che siano dinosauri, archeologi o extraterrestri poco importa: Spielberg è li con te.
Ti è a fianco mentre dall’ astronave esce un cosino con una forma stranissima che scappa nel bosco.
Ti abbraccia mentre quel cosino dalla forma di aspirapolvere si nasconde tra i pupazzi impaurito.
Ti fa confidare con lui mentre il piccolo E.T. comincia a parlare.
E infine ti fa appoggiare sulla sua spalla mentre sei li con i lacrimoni agli occhi a vedere ET risvegliarsi e ripetere “Casa, casa, casa, casa, Elliott” e poi in partenza mentre abbraccia il suo bambino preferito (uno straordinario Henry Thomas).
Vedere un film del genere da piccino vuol dire crederci.
Non so in cosa o a chi ma crederci.
Credere che un extraterrestre possa davvero entrare in casa tua e diventare il tuo migliore amico, credere che tua mamma davvero non capisca nulla di quel che vedi tu (che è vero!) e credere che la tua bici possa volare vicino alla Luna fin quasi a toccarla.
Vedere ET da adulti significa tornare bambini: significa ripensare a quell’ epoca in cui ti era permesso credere che la tua bici davvero poteva volare e perdersi in ricordi meravigliosi di amici fraterni con cui passare interi pomeriggi a giocare.
Vedere ET per la prima volta a 22 anni è come dare un bacio a una ragazza che si ama davvero: ti stordisce, ti ubriaca, ti fa cadere per terra e allo stesso tempo ti fa volare (le metafore son finite a casa di Deneil…)
Tifo per il cinema delle grandi storie.
Puoi essere anche Dio ma se non hai un grande storia alle spalle io non verrò a vedere la tua camera muoversi a destra e sinistra alla ricerca della mia attenzione.
Magari ci saranno i critici seriosi che ti faranno tanti applausi e si esalteranno un sacco nell’ interpretazione di quella sigaretta messa in alto a destra sullo schermo invece che sulla sinistra ma io non ci sarò.
Il mio cuore non ci sarà come anche quelli dei grandi critici che sono andati in pensione nel momento in cui hanno deciso di ripudiare Spielberg.
“ET” è una meraviglia per gli occhi ma lo è anche per cuore e mente.
La mente vola a ricordi fanciulleschi, gli occhi osservano il lavoro di ombre e immagini sognanti di Spielberg e il cuore è impegnato nella ricerca di qualcosa che si può sentire solo davanti a un film.
Diverso da quel che si prova con una canzone, diverso da quel che si prova con una ragazza.
Diverso.
Citazioni di camera in soggettiva da sci-fi degli anni ’50 (“Destinazione Terra” di Jack Arnold docet), suspence (le prime scene), commedia (vedere ET ubriaco o sbattuto a Terra dallo sportello del frigo mi ha fatto sorridere il cuore), dramma.
Spielberg è questo e molto altro.
Spielberg è il cinema che tutti i bambini dovrebbero vedere.
Io mi sento e mi sentirò sempre un po’ bambino.
Spielberg è il mio cinema.

REGIA: Steven Spielberg
ANNO: 1982
GENERE: fantascienza, commedia, drammatico, tutto!
VOTO: 10 assolutamente! Il finale da solo basta per un voto del genere.
QUANTO è SOGNANTE ANCHE LA COLONNA SONORA DI JOHN WILLIAMS: 10
CONSIGLIATO A CHI: A chiunque ha un cuore.

mercoledì 13 febbraio 2008

ORIGINAL AND REMAKE_ PSYCHO- PSYCO

Era pronta da tempo ed è stata fortemente voluta da quello stroncatore pazzo di Mario (almeno in questa modalità doppia).
Signore e signori la recensione di Psycho!




Inutile.
Inutile, pretenzioso, falso e senza senso di esistere.
A volte mi chiedo come possa venire anche solo in mente ad una persona di girare certe pellicole.
Di mettersi li a buttare dei soldi in allegria nel cesso come se fossero foglietti con scritto sopra delle cifre insignificanti.
Ma soprattutto.
Perché buttare via del tempo che non tornerà più nella vita?
E perché far perdere due ore a milioni di spettatori che potevano prendere una sana boccata d’ aria in quel tempo ormai andato perso?
Mi riferisco al remake di Van Sant ovviamente.
Il remake di Psyco di Alfred Hitchcock.
Uno dei capolavori del grande maestro che meriterebbe pagine e pagine di analisi filmica e sociologica reinterpretato da uno dei più apprezzati cineasti degli anni 90 (mi riferisco all’ opinione comune e non alla mia che è ancora molto indecisa sulla questione).
Reinterpretato.
Che parolone.
Diciamo pure copiato con la carta carbone.
Diciamo pure fotocopiato a colori con qualche errore di stampa qua e là.
La domanda che mi sono posto subito dopo aver visto l’ originale Psyco è stata: “Perché girare un remake di una pellicola così tremendamente moderna?”
Non c’ è una risposta a una domanda del genere.
O perlomeno io non l’ ho trovata.
Il gioco di Hitchcock con lo spettatore, quello fatto di personaggi inesistenti, di giochi di camera, di piccoli particolari da interpretare, di doppiatori diversi per uno stesso personaggio nella distruzione di una delle regole base della cinematografia classica (Norman Bates nei panni della madre non è doppiato dallo stesso Anthony Perkins) diventa nelle mani di Van Sant segatura al vento.
Diventa una sterile copia fatta di dialoghi, inquadrature, personaggi e ambientazioni il più possibile identici all’ originale.
E così mentre Hitchcock si diverte a prendere in giro lo spettatore, mentre lo fa girare da una parte per rubargli il portafoglio dall’ altra, mentre gli fa morire il protagonista a metà pellicola lasciandolo senza un punto di riferimento fisso, Van Sant con fare serioso tenta di fare l’ Hitchcock in modo maldestro.
Tenta di distrarre lo spettatore e non fa altro che annoiarlo, tenta di mettere in scena un nuovo Anthony Perkins e si trova con un Vince Vaughn rigido come un tronco, tenta di fare il giocoliere e gli cadono tutte le palline dalle mani.
E Hitchcock se la ride.
Mentre mescola la società moderna al gotico ottocentesco (la casa di Norman) e mette in scena come se nulla fosse uno dei grandi mali nascosti dell’ America moderna (i tranquillanti- psicofarmaci che la collega di Marion prende in ufficio) si diverte a vedere come Van Sant annaspi sulle sue orme cadendo con la faccia nel fango per un passo troppo lungo della gamba.
Che Van Sant non sia Hitchcock lo si capisce fin dal nome, ma che Van Sant abbia in comune con il maestro una sola lettera nel cognome lo si capisce solo guardando attentamente.
Lo Psycho del 1998 è privo di ispirazione e di inventiva come molti remake ma quel che spaventa è la mancanza di personalità: basta un Norman Bates che si masturba a far capire che si tratta di un film di Gus Van Sant?
Basta omaggiare un grande maestro del cinema per essere accostati a lui?
Basta ripetere ogni sua inquadratura, gesto (c’ è perfino uno che assomiglia a Hitchcock sul marciapiede fuori dall’ ufficio) e mania per far dire allo spettatore: “Guarda com’è diligente questo alunno di Alfred!”
No.
Non basta.
È anzi offensivo credere che tutto ciò sia un omaggio a una pellicola che non aveva bisogno di nessun omaggio, di nessun rifacimento perché è ancora troppo nuova e splendente così com’è.
Nel suo bianco e nero inquietante, nel suo Anthony Perkins eccezionale, nella sua bellissima Janet Leigh ma soprattutto nella sua regia.
I colori, Viggo Mortensen (straordinariamente simile l’ abbigliamento che usa qui e in “A history of violence”), Anne Heche (sensuale più o meno come un muro di cartongesso) e Van Sant non possono far nulla per omaggiare Hitchcock.
Anzi si.
Una cosa la potevano fare tutti insieme.
Sedersi su un divano e rivedersi ancora una volta l’ originale.
Per prostrarsi ai piedi del televisore di fronte a tanta arguzia.
Per evitare di rovinare un bel ricordo a tanti spettatori e schifarne altrettanti che non hanno visto l’ originale.
Per non perdere tempo prezioso nella propria effimera vita.
Il film più brutto che io abbia mai visto?
No, assolutamente.
Ma quello più inutile senza dubbio.

PSYCHO- PSYCO
REGIA: Alfred Hitchcock
ANNO: 1960
VOTO: 10

PSYCHO
REGIA: Gus Van Sant
ANNO: 1998
VOTO: 3,5

GENERE: Thriller
QUANTO CONTRIBUISCE LA SPLENDIDA COLONNA SONORA DI BERNARD HERRMANN AL RISULTATO FINALE: 10
CONSIGLIATO A CHI: Nel caso di Hitchcock a tutti, nel caso di Van Sant vuole vedere un remake uguale e più brutto dell’ originale (tanto per cambiare!)

lunedì 11 febbraio 2008

UNA VOLTA AVEVO... I CAPELLI LUNGHI DIETRO E CORTI SOPRA

Senza tempo per scrivere un acca almeno nei primi tre giorni della settimana ecco un nuovo appuntamento di "Una volta avevo" che mi ero prefisssato secoli fa con uno dei miei eroi dell' infanzia!
E voglio vedere chi non se lo ricorda!
Mitico Mac!




domenica 10 febbraio 2008

CHARLIE WILSON'S WAR- LA GUERRA DI CHARLIE WILSON

Mike Nichols, non dico altro.



Sono andato a vedere “La guerra di Charlie Wilson” senza saperne praticamente nulla.
O meglio.
Conoscevo attori, regista, vicende curiose ma nulla riguardo al tema trattato.
Dal titolo potevo anche intuirlo o farmi una bella ricerchina su google ma sinceramente non ho voluto.
Volevo vedere che effetto poteva fare un film su una questione politica senza saperne quasi nulla al riguardo.
Già, perché anche quando mi è stato chiara la direzione, o almeno il tempo in cui la vicenda è ambientata ammetto di essermi perso qualche cosa.
Non ne so molto sui finanziamenti USA all’ Afghanistan che poi han provocato tanti danni negli anni seguenti ma Mike Nichols ci sa fare.
Questo è fuor di dubbio.
Lui prende una questione politica molto delicata quale è quella in questione e la rivolta come un calzino.
La fa diventare un film.
In tutti i sensi possibili e immaginabili.
Certo, tutti sono capaci di creare un film da una vicenda vera ma quel che il regista laureato fa in questo caso è qualcosa di più che scegliere un attore per la parte di Charlie Wilson e metterlo a ripetere frasi e abitudini della persona realmente esistita.
Mike Nichols crea un film.
Carica i personaggi fino a renderli quasi caricaturali, carica le ambientazioni fino a renderle iperreali, carica le inquadrature fino a trasformare una vicenda reale in un film quasi teatrale ma non teatrale.
Insomma Mike Nichols dirige.
Dirige un Tom Hanks finalmente convincente (e senza quegli orribili capelli lunghi unti de “Il codice da Vinci”), una Julia Roberts nel ruolo giusto (le capita assai raramente), un Philip Seymour Hoffman ormai lanciatissimo verso questi personaggi un po’ ambigui, un po’ simpatici, un po’ pazzi e una Amy Adams che stupisce davvero dopo il ruolo cartoonesco di “Enchanted”.
Non si limita a girare scenette teatrali come nell’ ultimo Woody Allen con personaggi tutti faccette e tic, semplicemente Mike Nichols impugna la regia.
Non vi troverete mai con quella sgradevole sensazione della camera che insegue il personaggio, la faccia, l’ azione perché saranno queste ultime a girarsi per la camera.
Non credo che riuscirò a spiegarmi meglio ma sembra davvero che ogni scena sia studiata fin nei minimi dettagli per la camera di Mike Nichols.
Non c’è un elemento fuori posto, un movimento di troppo, una parola fuori luogo nelle immagini del regista: tutto si muove per lui eppure sembra sempre di trovarsi contemporaneamente in un film e in una vicenda reale.
È una sensazione strana eppure forte quella che si prova nel momento in cui lo stivale di Hanks si poggia direttamente di fronte alla camera come simbolo di un personaggio fuori dagli schemi, fuori dalla politica eppure invischiatoci dentro e felice di sguazzarci come un maiale.
Una politica che diventa qui teatro di accordi segreti, favori richiesti, favori dovuti, raccomandazioni e quanto di più sotterraneo possiate pensare.
Proprio come ne “Il laureato”, in “Closer” o in "Chi ha paura di Virginia Woolf" Mike Nichols sceglie una storia quasi classica (il politico che riesce a creare qualcosa di eccezionale dal nulla) e ne mostra il lato più nascosto senza vergogna.
A 76 anni Nichols riesce ancora a stupire.
Con uno script intelligente tratto dal libro di George Crile e adattato da Aaron Sorkin costruisce una signora pellicola cheF fa sorridere, pensare, inquietare e dubitare.
Chi è il buono?
Chi è il cattivo?
Davvero Charlie Wilson era questo eroe tanto acclamato?
Nichols non si accontenta di una visione unilaterale: il mondo ha più facce e così lo inquadra la sua camera.
Più prospettive, più piani, più particolari, più tutto.
Mike Nichols è un genio.
REGIA: Mike Nichols
GENERE: politico
ANNO: 2008
VOTO: 8 (perché comunque può non piacere a tutti e lo stesso Nichols ha fatto di meglio)
QUANTO è TORNATO A RECITARE HANKS: 10
CONSIGLIATO A CHI: Ha voglia di un film sulla politica un po’ diverso dal solito.

venerdì 8 febbraio 2008

DEXTER- STAGIONE 1

DEXTER 1 STAGIONE
Eccola la prima serie che recensisco sul blog.
L’ avevo promesso all’ inizio di questa avventura che avrei recensito anche le serie tv e avevo bene in mente quale sarebbe dovuta essere la prima.
Poi il fulmine a ciel sereno
Dexter.
Ringrazio GianMario di Xinematica che è stato il primo da cui ho letto di questo fenomenale serial!



Maschere.
Alla fine si tratta solo di quello.
Ricordo quando bambino andavo al carnevale del paese e mi mascheravo da Sbirulino e poi da Zorro..infine pirata.
Maschere diverse, ma io ero sempre lo stesso sotto.
E ricordo di quella mia amica un po’ maschiaccio che si vestiva sempre da principessina a Carnevale ma si comportava comunque da maschiaccio malmenando tutti gli altri piccoli maschietti indifesi.
Maschere che si mettono in viso credendo che nessuno riesca a riconoscerti.
Credendo che quella maschera basti a farti cambiare agli occhi di tutti.
È questo che fa Dexter.
Si maschera.
Solo che lui il Carnevale lo festeggia tutti i giorni dell’ anno.
Lui vive mascherato da persona normale ogni giorno dell’ anno, anzi, vive mascherato da ottimo poliziotto della scientifica.
Lo dico senza fronzoli: “Dexter” è la serie meglio riuscita che io abbia visto in questi ultimi 10 anni.
Facciamo 7.
Facciamo dall’ uscita di “Csi” .
Perché da quel che ricordo io è stata quella serie a rivoluzionare un po’ tutto.
Soprattutto in ambito televisivo poliziesco investigativo.
Ma certo anche prima c’ erano i vari commissari Scali, la squadra speciale cobra 11, Miami Vice, il commissario Colombo e la signora porta sfiga in giallo.
Ma non c’ era nessuno come gli agenti di della scientifica di Las Vegas: precisi, perfetti, puliti, sicuri, infallibili ma non troppo, con problemi personali e minuziosi fino alla nausea.
Provate a guardare una serie poliziesca o investigativa nata dopo “Csi”.
Provateci e ditemi se ne trovate una che non si basa su quella pulizia di immagini e di azione che è Csi.
Certo c’è “The shield”: la serie violentissima e sporchissima con protagonista Michael “La cosa commissario Scali” Chiklis ma non vi sembra che alla fine anche quella si basi sulla serie con Grissom protagonista?
“The Shield” non è forse “Csi” rovesciato come un calzino?
“Dexter” nasce anch’ essa sull’ onda di “Csi” .
Si tratta di una serie investigativa con protagonista un uomo della scientifica che si occupa minuziosamente delle tracce lasciate dai killer con il sangue: “cosa c’ è di più simile a “Csi” di questo?” mi chiesi durante i primi 5 minuti della prima puntata.
Niente e tutto.
Perché Dexter è altro.
Dexter è Grissom che indossa la maschera e va di notte a uccidere i criminali con lo stesso fare preciso e minuzioso che un agente della squadra scientifica di Las Vegas impiegherebbe per risolvere un caso.
“Dexter” si maschera da serie tv investigativo- poliziesca ma è un thriller dalle dimensioni cinematografiche.
Uno di quei thriller che con “7even” di David Fincher sono diventati tanto di moda.
Ma “Dexter” non è solo quello.
Dexter si maschera da thriller perché sotto sotto in realtà è un uomo come noi.
Di quelli che si alzano al mattino e si preparano la loro colazione abitudinariamente e minuziosamente e che la sera davanti al tg con l’ ennesima notizia dello stronzo che ha ammazzato un vecchiettino indifeso nella sua casa dicono: “Altro che carcere!”
Già.
Altro che carcere.
Dexter ha trattamenti speciali per chi persevera nel crimine.
Trattamenti che nasconde sotto la sua bella maschera e che poco gli serviranno di fronte ad un uomo che la maschera ha deciso di non indossarla.
Capirete intorno a metà della serie chi è il killer del camion frigo eppure vi stupirete di come “Dexter” sappia giocare con questa vostra consapevolezza, vi stupirete perché Dexter è una delle migliori serie investigativo- poliziesche- thriller uscire negli ultimi anni.
Vi stupirete perché Dexter sa mascherarsi bene.
Vi stupirete perché alla fine Dexter è già dentro tutti noi.
E nessuno se ne è accorto.
CREATORE: James Manos Jr
ANNO: 2006
GENERE: Serial poliziesco, investigativo, thriller
VOTO: 10- (capirete quel meno leggendo la recensione della seconda serie)
QUANTO è AL SUO POSTO MICHAEL C. HALL NEI PANNI DI DEXTER: 10
CONSIGLIATO A CHI: Vuole vedere un serial che farebbe un figurone al cinema per produzione, regia, sceneggiatura e interpretazioni.

mercoledì 6 febbraio 2008

THE SIMPSON MOVIE_ I SIMPSON- IL FILM

Dopo il viaggio giurassico, quello nella natura selvaggia, quello negli anni 60 con "Factory Girl", quello negli anni '70 (poco frequentato) con "Distretto 13" e quello teatrale con "Sogni e delitti" ecco quello animato.
I Simpson.



Avevo accuratamente evitato di scriverne quando uscì.
Mentre tutti si azzuffavano per decidere in che posizione collocare il film dei Simpson ricordo di aver avuto la tentazione solo una volta di scriverne.
Per dire anche la mia, per far sentire anche la mia voce, per rispettare la regola autoimpostami del recensire tutto.
Non lo feci.
Preferii evitare le zuffe da bar sport che si erano create intorno al film dei Simpson con gente che urlava al capolavoro e altra che mestamente ammetteva che non si trattava poi di questa gran pellicola.
Poi ovviamente c’ erano i fan.
Quelli ci sono sempre.
Quelli che anche se gli fai friggere una merdina ti dicono che è buona se è firmata col nome del loro idolo.
Preferii non partecipare quella volta.
Eppure all’ uscita in dvd e ad una seconda visione mi sento di poter dire finalmente qualcosa senza che nessuno si scagli con la testa contro lo schermo del pc come facevano gli incauti zombie di “Io sono leggenda”.
Ricordo che prima dell’ uscita ero finito su un sito dove ad ogni nuova mininotizia sul film in questione cercavo di raffreddare leggermente gli entusiasmi e tutti invariabilmente mi zittivano con orde di fischi e punti negativi.
Era il delirio più totale.
Poi finalmente arrivò in sala.
E il delirio, se possibile, crebbe ancora.
E mentre fazioni di pazzi scatenati (tra cui c’ero anch’ io, ma non tra gli entusiasti) si scatenavano in piazza, il film dei Simpson mestamente si allontanava dalla sala, pian piano con passo felpato.
Quasi senza che nessuno se ne accorgesse scomparì nel nulla.
Quello che doveva essere l’ evento dell’anno, quello che doveva fare chissà quale botto al botteghino, quello che doveva distruggere tutto e tutti scomparve lasciando solo minime tracce tra i fan più deliranti che in mezzo alle strade deserte ancora predicavano al nulla: “Guarda là che citazione maestosa! Guarda qui che gag fenomenale, guarda su il pisello di Bart, guarda giu la pancia di Homer!”
Quello che doveva sfracellare il mondo a conti fatti alla fine dell’ anno comparve in ben poche classifiche tra le pellicole più apprezzate: persino chi inizialmente aveva urlato al capolavoro alla fine se ne dimenticò.
Non perché volesse smentire le sue parole precedenti ma semplicemente perché se ne dimenticò come ci si dimentica dell’ennesima commedia romantica con nulla da dire vista in prima serata su Italia 1.
Poi a distanza di mesi, grazie ai dvd il film dei Simpson ricomincia a girare.
Ricominciano gli spot in tv con Spider Pork, la suoneria di Spider Pork, il giocattolo di Spider Pork, la cacca spray di Spider Pork e via dicendo.
Ma non è la stessa cosa.
Ascoltate bene: non è più quel gran frastuono che si era fatto all’ uscita della pellicola nelle sale ma una voce flebile quella che ci avvisa dell’ uscita in dvd.
Una voce che molti faticano persino a sentire: delusi, arrabbiati, dimentichi delle loro grandi, enormi, gigantesche, mirabolanti aspettative fanno finta di nulla mentre il film dei Simpson cerca di riprendere faticosamente piede.
E io mi decido: io che avevo detto di stare attenti che poteva essere una mezza delusione, io che non ero molto convinto della nuova veste grafica, io che m’ero preso una marea d’insulti perché bestemmiavo contro i Simpson decido di dargli una seconda possibilità.
Magari ho visto male.
Magari avevo gli occhiali sporchi.
Magari c’erano citazioni incredibili che non ero riuscito a cogliere la prima volta ma che ora nel silenzio di casa (il cinema era ovviamente gremito di quindicenni rincoglioniti e ridanciani) riuscirò ad apprezzare.
Magari sono scemo e non me ne sono mai accorto (beh no, un po’ scemo lo sono e me ne rendo conto ogni giorno!)
Magari un cazzo!
Il film dei Simpson ad una seconda visione conferma le mie prime idee.
Anzi, se possibile peggiora il tutto.
Non è un film insufficiente.
Ne ho visti talmente tante di schifezze in questi anni che non posso dire che il film dei Simpson sia insufficiente.
Semplicemente non sa di nulla.
È come la pasta senza il sale.
Non fa schifo: semplicemente non ha senso mangiarla!
Tu prepari il sugo, metti su l’acqua, apparecchi il tavolo, butti la pasta, la scoli, la fai saltare in padella e dopo 15 minuti ti ritrovi con una cosa che non sa di nulla.
Non fa incazzare?
A me si.
Il film dei Simpson atteso per anni e anni e anni e anni è così: non sa davvero di nulla.
Dategli la definizione che volete: puntatone allungato a dismisura, i Simpson senza la cattiveria dei Simpson, i Simpson per tutti, i noia- Simpson, i Simpson delle ultime serie, i Simpson- boh.
Il film dei Simpson non è un delusione.
Per me che me lo aspettavo (non credo sia italiano…) non rimane questa gran delusione ma semplicemente il rimpianto di averli persi quasi irrimediabilmente.
Non convinto dalle ultime serie già abbastanza inutili e a mio parere ormai sorpassati dai Griffin e da Futurama (American Dad si avvicina di gran carriera!) il film dei Simpson è proprio come un megapuntatone delle ultime serie senza la cattiveria dei Simpson e con grandi momenti di noia.
Tra una gag e l’ altra di Homer (ormai l’unico personaggio principale su cui anche la serie punta a differenza di Futurama e dei Griffin) si fa spazio un vago senso di già visto (Lisa con il ragazzo, Bart con Flanders, Maggie che salva qualcuno, Marge che sopporta) che con una seconda visione diviene quasi irritante.
A una seconda visione si sorride.
È questo il peggio!
Mentre mi aspettavo di ridere ancora a crepapelle per qualche battuta che avevo trovato divertente al cinema (evidentemente era l’effetto novità) mi son ritrovato a sorridere di qualche buona trovata e nient’altro.
Non c’è la freschezza di quelle puntate trasmesse milioni di volte su Italia 1 per cui ancora mi sbellico e nemmeno una gag davvero forte (come accade nelle ultime serie) capace di risollevare un intera puntata.
È come se avessero messo il sale per mezzo litro d’acqua in due litri d’acqua.
Tutto risulta diluito, annacquato, insipido come dicevo prima.
Buona la grafica che a una seconda visione si fa molto apprezzare e buone anche alcune citazioni (ma sinceramente non si può vivere solo di quelle, nemmeno se ti chiami Tarantino o Matt Groening) ma alla fine il risultato è solo poco più che sufficiente.
Un film che sinceramente non meritava tanto clamore e che si è ritrovato inevitabilmente a pagare le grandi attese tradite.
Forse un passaggio più mesto come quello del film dei Griffin avrebbe giovato alla famiglia gialla.
Forse.
REGIA: David Silverman
ANNO: 2007
GENERE: Animazione
VOTO: 6,5
QUANTO MI HA FATTO GIRAR LE PALLE ATTENDERE LA FINE DEI TITOLI DI CODA INFINITI PER VEDER DUE CAZZATINE: 10
CONSIGLIATO A CHI: è un fan dei Simpson e pochi altri. Per gli altri consiglio le serie di mezzo dei Simpson, quelle storiche con i disegni già migliorati.

martedì 5 febbraio 2008

ORIGINAL AND REMAKE_ ASSAULT ON PRECINT 13

Finalmente dopo una almeno una decina di rimandi dovuti a varie recensioni multiple e a film recentemente usciti nelle sale ecco il nuovo capitolo del mio percorso Carpenteriano, più precisamente il secondo.
Vi ricordo, tanto per far un po' di pubblicità che il primo capitolo è quello rappresentato da "Dark Star" e che questo "Distretto 13" segue una scia portata avanti da "Mezzogiorno di fuoco" e "Tre classici due miti: Howard Hawks e John Wayne".
Ma tutto questo intrico di recensioni lo potete trovare comunque su quel link in testa alla pagina intitolato "percorsi".
Buona lettura!

- ASSAULT ON PRECINT 13- DISTRETTO 13: LE BRIGATE DELLA MORTE (1976)
- ASSAULT ON PRECINT 13 (2005)



Una volta avrei voluto essere l’Howard Hawks degli anni settanta e ottanta

By John Carpenter

Non doveva essere così.
Io avevo scritto una recensione tutta per quel capolavoro che è l’ originale di Carpenter ma il remake non mi ha lasciato scelta.
Lo dico chiaramente: come cazzo faccio a scrivere una recensione di un film così inutile?
Inutile.
È l’ aggettivo giusto per una pellicola del genere.
Ma partiamo da Carpenter.
“Distretto 13: le brigate della morte” fa la sua comparsa nelle sale nel 1976 e si tratta di quello che viene indicato da molti (giustamente o meno tocca a voi giudicarlo) come il primo vero lungometraggio di John Carpenter.
È la prima pellicola in cui il regista lavora con Debra Hill (futura collaboratrice per molti film), la prima in cui ha a disposizione un budget decente (se 300000 dollari possono essere considerati un budget decente…), la prima in cui ci mostra una storia a la Carpenter e la prima in cui i personaggi sono decisamente Carpenteriani.
Distretto 13 è la prima opera che molti vorrebbero poter creare.
È un western.
Ma è un western ambientato in città.
È un horror.
Ma è un horror in cui non accade nulla di veramente orrorifico.
È anche una mezza tamarrata.
Ma è una mezza tamarrata in cui si ride amaramente.
Insomma è Carpenter al 100%.
In sostanza Distretto 13 nasce come remake di “Un dollaro d’ onore” di Howard Hawks e si trasforma in qualcosa di completamente diverso.
Ambientato in una città deserta a cui mancano solo le classiche balle di paglia sospinte dal vento (mai capito cosa sono!) per diventare un villaggio abitato da John Wayne, la pellicola racconta le avventure del tenente Ethan Bishop che, appena nominato tenente, viene mandato a sorvegliare una stazione di polizia in disarmo per l’ ultima notte in funzione.
Il suo dovrebbe essere un lavoro semplice semplice se non fosse per l’ arrivo inaspettato di un camion della polizia con a bordo un condannato a morte e altri due detenuti e quello di un uomo evidentemente sconvolto da qualcosa che nessuno riesce a comprendere.
Quel qualcosa è la follia.
Provocata dall’ uccisione davanti ai suoi occhi della figlioletta innocente da parte di una banda giovanile armata di tutto punto e dal suo conseguente omicidio a sangue freddo ai danni dell’ uccisore, la follia di quest’ uomo non è sola.
È accompagnata dalla rabbia dei compagni del giovane bandito ucciso che decidono di attaccare la stazione di polizia di fatto chiudendo in un assedio estenuante i nostri.
Ethan Bishop, messo alle strette, decide di liberare i due detenuti rimasti vivi (uno nel frattempo è stato ucciso dagli assedianti) ed è convinto a non arrendersi a nessun costo.
Ecco: fermiamoci.
Ora prendete questa trama e adattatela ad un poliziesco dei giorni nostri con le dovute variazioni per richiamare l’ originale ma non troppo.
Innanzitutto il tenente ha una storia tormentata alle spalle: in una missione per un suo errore i suoi due compagni sono stati uccisi dai banditi che stavano per catturare e lui ne è rimasto irrimediabilmente sconvolto tanto che ancora adesso è insicuro e prende delle pastiglie di chissà che cosa per andare avanti.
Per seconda cosa i prigionieri che arrivano alla stazione di polizia nella notte sono dei coglioni che devono far ridere lo spettatore imberbe e devono fargli anche esclamare: “Guarda quello nero è Ja Rule! Yo Yo!” ad eccezione del condannato a morte che ovviamente è serissimo e ha la voce profondissima (vi sconvolgerò più tardi con il nome dell’ attore che lo interpreta!).
Infine, proprio per non farsi mancare nulla, la segretaria della stazione di polizia che nell’ originale era una donna abbastanza normale, è un puttanone con una minigonna lunga tre dita a cui piace stare con i ragazzacci e mentre parla con il condannato a morte accarezza la canna di una pistola in una delle metafore meglio riuscite del cinema del nuovo millennio… per favore!
Ma ritorniamo al maestro.
Carpenter parte da Hawks, passa per Romero e prosegue.
È Romeriano e zombiesco l’ assalto alla stazione di polizia dei banditi, è Romeriana la loro non identità (provate a ricordarvi un viso degli assedianti e vi renderete conto che è quasi impossibile. Per quanto diversi sono tutti uguali!), è Romeriana la loro immortalità (esplicativo in questo senso il primo colpo del padre della bambina al bandito in pieno stomaco che non sembra fargli nessun effetto) ed è fin troppo Romeriana la colonna sonora che Carpenter crea per l’ occasione.
Ma a Carpenter non basta.
Lui prosegue.
Mescola la rivolta sessantottina di Romero ad una violenza tipica da cinema anni ’70, una violenza così esplicita e brutale che difficilmente Hollywood (e non) proverà a riportare sugli schermi finito quel decennio.
Una violenza che disturba.
Persino me.
Cresciuto a pane, Stallone, Schwarzenegger e omicidi consumati nei tg ogni tre per due non credevo che qualcosa al cinema potesse ancora disturbarmi.
E invece Carpenter ci riesce: fa uccidere una bambina con una pistola lunga 30 centimetri a sangue freddo.
Come se nulla fosse.
Stop!
Secondo voi cosa rimane di tutto ciò nel remake del nuovo millennio?
Ma è ovvio!
Nulla.
Il film perde la carica eversiva dell’ originale e si trasforma in un banalissimo poliziesco dove gli assediati devono difendersi dagli assedianti nei modi più disparati senza fermarsi un attimo a pensare.
Ma il peggio deve ancora venire.
“Assault on precint 13” non si limita a distruggere le intenzioni del film originale fracassando personaggi (ad eccezione del condannato a morte sono tutti invariabilmente ridicoli!), dialoghi (per carità! Spero che Carpenter non li abbia mai sentiti perché a differenza dell’ eccessivo realismo della sua pellicola qui sembra di sentir parlare delle marionette) e messaggi socio- politici.
No.
“Assault on precint 13” diventa una specie di thriller fatto male!
Si scopre ad un certo punto (neanche tanto in là nella pellicola) che gli assedianti sono poliziotti corrotti che collaboravano con il condannato a morte (un gangster della città) che ora vogliono la sua morte a tutti i costi perché non parli.
E poi la perla finale: c’ è un traditore all’ interno della staione che verrà svelato solo nell’ insipido finale!
Direi che si può proseguire con Carpenter: certe cose non vanno neppure commentate.
Il carpentiere riprende Hawks e il western e lo mescola a Romero in un mare di citazioni più o meno riconoscibili.
Il montaggio è firmato da John T. Chance, pseudonimo di Carpenter utilizzato perché così si chiamava lo sceriffo interpretato da John Wayne in “Un dollaro d’ onore”.
La scena del fucile lanciato da Ethan a Napoleone è identica a una scena dello stesso film e ancora sul finale i poliziotti all’ esterno della caserma riconoscono l’ assedio grazie a delle gocce di sangue che cadono dall’ alto sulla loro macchina (scena che segnai come memorabile in “Un dollaro d’ onore”).
Ma Carpenter non si ferma mai.
A Romero e Hawks il regista aggiunge se stesso: personaggi come Napoleone Wilson con frasi come “Io sono nato fuori tempo!” e il perfezionismo di alcune riprese (da citare almeno quella sul fanale dell’ automobile in corsa!) diventeranno un marchio di fabbrica per tutta l’ opera di questo fantastico artigiano del cinema.
Insomma Carpenter si diverte e ci fa divertire con un sorriso amaro sulle labbra.
Non mi va neanche di dirvi che ovviamente “Assault on precint 13” non mantiene nessuna di queste citazioni perché credo abbiate capito di fronte a che prodotto vi trovate davanti.
Il remake di “Distretto 13: le brigate della morte” è l’ ennesima pellicola costruita ad uso e consumo di un pubblico giovane in cerca di un filmetto con cui passare due ore tra sparatorie e qualche colpo di scena annunciato ovvero l’ esatto contrario del film di Carpenter che necessita di una vera conoscenza delle basi culturali del regista per essere realmente compreso.
Molto probabilmente se riguarderò Distretto 13 tra qualche tempo, quando la mia cultura cinematografica sarà ancora più vasta, riuscirò a scorgere nuovi significati e nuove citazioni del maestro mentre già penso a cosa succederebbe ad una mia seconda visione del remake.
Già mi vedo bello addormentato sul divano.

Piccola curiosità sul remake: Il film di Carpenter nasce come remake di “Un dollaro d’ onore” il quale a sua volta nasceva come remake di “Mezzogiorno di fuoco” (di cui comunque è già stato fatto un remake per la tv via cavo in America nel 2000). “El Dorado” e “Rio Lobo” dello stesso Hawks altro non erano che remake di “Un dollaro d’ onore”.
Ora, mi chiedo io, c’ era davvero bisogno del remake (il film del 2005) di un remake (“Distretto 13”) di un remake (“Un dollaro d’ onore”) di un capolavoro (“Mezzogiorno di fuoco”).
Rispondetevi da soli.

ASSAULT ON PRECINT 13- DISTRETTO 13: LE BRIGATE DELLA MORTE (1976)
REGIA: John Carpenter
ANNO: 1976
GENERE: Carpenter!
VOTO: 10- (a parte il 10 che ho dato a Dark Star perchè si tratta di qualcosa di completamente differente c'è almeno ancora un Carpenter migliore di questo!)
QUANTO è SIMILE LA SCENA IN CUI I NOSTRI FANNO ESPLODERE LA NITROGLICERINA A QUELLA DI UN DOLLARO D’ ONORE DOVE JOHN WAYNE E SOCI FAN SALTARE LA DINAMITE: 10
CONSIGLIATO A CHI: Ama il Carpenter più polemico con la società ma anche quello fracassone.

ASSAULT ON PRECINT 13
ANNO: 2005
REGIA: Jean Francois Richet
GENERE: Thriller, action
VOTO:4
QUANTO è L’ UNICO CHE SI SALVA MORPHEUS (EHM LAURENCE FISHBURNE) NEI PANNI DEL CONDANNATO A MORTE: 8
CONSIGLIATO A CHI: Vuole vedere come si distrugge pezzo per pezzo un capolavoro.

domenica 3 febbraio 2008

CASSANDRA' S DREAM- SOGNI E DELITTI

E così mi ci ritrovo di nuovo.
A pubblicare una recensione ad un' ora in cui vorrei essere già a letto (mi son già addormentato sul tavolo), lasciando poco spazio al precedente "Factory girl" (di cui comunque lascio il template in bella vista, sperando che qualcuno se ne ricordi) per parlare di una pellicola che non dovevo neanche vedere.



Non è che io ce l’abbia con Woody Allen.
Non mi ha fatto nulla di male.
E come al solito sarò sincero con voi: mi mancano molti dei suoi capolavori passati nel curriculum.
Forse questo fa di me un cattivo cinefilo, un cattivo predicatore nel deserto, un cattivo spettatore di Woody.
Eppure credo di essere in questo modo anche leggermente più obiettivo di tante persone che entrano in sala considerando Allen un genio.
Sia chiaro: non lo dico per vantarmi (non c’è nulla da vantarsi se non conosco la sua opera maggiore) ne per criticare qualcuno; io stesso con altri autori faccio la stessa cosa, ricerco spunti geniali anche all’ interno di pellicole meno riuscite.
Pellicole meno riuscite che comunque non ammetterò mai di essere brutte.
Sono meno riuscite, tutto qui.
“Sogni e delitti”, o come meglio preferiranno chiamarlo quei battaglieri di Chimi e Para (andatevi a vedere la loro nuova battaglia contro la distribuzione) “Cassandra’s Dream”, è una pellicola meno riuscita.
Pur essendo fin troppo oggettivo, fin troppo distaccato direi, quasi contro al Woody di questi ultimi anni non riesco a dire che il film in questione è un brutto film.
Non lo è.
Nemmeno per me.
O almeno non totalmente.
È semplicemente un po’ come dire: scivoloso.
Capiamoci: io tra un anno non ricorderò neanche più di cosa parla “Sogni e delitti”.
Mi ricorderò di Colin Farrell nel ruolo nevrotico ansioso da Woody, mi ricorderò del neo sulla fronte di Ewan Mc Gregor inquadrato talmente tante volte in primo piano da far venir la nausea, mi ricorderò forse della bella fidanzatina di Ian (Mc Gregor) e dell’ insopportabile doppiatrice italiana di Kate (la donna di Terry, Farrell).
Le pur belle musiche di Philip Glass pian piano stanno già scomparendo mentre la regia di Woody che continua a girare letteralmente intorno ai suoi protagonisti con la camera è già un quasi ricordo.
Ricorderò forse meno piacevolmente (ma lo ricorderò, le cose spiacevoli si ricordano più facilmente) quel tocco di teatrale, di finzione, di estrema plasticosità che permea tutta la pellicola.
E non intendo plasticosità come bruttezza ma proprio come falsità, come involucro esterno che ricopre tutto e tutti.
Dalle ambientazioni alla regia di Allen alle interpretazioni dei protagonisti che seppur bravi (in particolare Farrell mostra finalmente qualcosa che non siano i muscoli o i baffi) sembrano sempre troppo calcolati, troppo studiati.
Persino quei tic, quei movimenti di sopracciglia (ma quanto sono grandi?) di Colin, gli sguardi di Mc Gregor che si vorrebbero più naturali sembrano troppo imposti.
La storia non sto nemmeno a raccontarvela perché sinceramente di perdere tempo a scrivere di cose che potete leggere ovunque non mi sembra il caso, soprattutto per pellicole come queste di cui potete trovare un sunto persino sui giornalini che danno al supermercato.
“Sogni e delitti” lascia poco o niente.
Sta a voi scegliere: a mio parere 6, 50 euro per pellicole come questa sono soldi persi in scommesse.
Uno ci prova ogni tanto ma sa già che al 90% gli andrà a buca.
E quindi perché uscirsene delusi o arrabbiati dal cinema pensando a quante volte mi ero detto di non andarlo a vedere, di aspettarlo in dvd, di non meritarmi una seconda fila sotto lo schermo?
Perché uscirsene delusi se già si sapeva che non ci sarebbe stato molto?
Semplicemente perché vorrei che Woody la smettesse di produrre una pellicola all’ anno anche quando le idee sono sottozero.
Forse è per curare le sue mille nevrosi, forse è per i soldi (non credo), forse è perché lui crede siano comunque buoni film.
Sta di fatto che io tra un anno mi vedo già a ripensare al dubbio se andare a vedere il nuovo film di Allen ambientato a Barcellona.
“Den andiamo a vedere il nuovo film di Allen?”
“Aspetta c’era un motivo per cui non volevo vederlo, com’ era quel “Sogni e delitti” dell’anno scorso? Non me lo ricordo molto bene… c’ era Mc Gregor con lo sguardo di ghiaccio e poi? Ah ma c’è la Johansson in quello nuovo? Bene bene, divertitevi pure che io vado a vedermi il nuovo Scott, sulla locandina c’è scritto “Epico ai livelli di “Apocalypse Now”!”
REGIA: Woody Allen
ANNO: 2008
GENERE: Drammatico, Thriller (?!?)
VOTO: 5
QUANTO MI PIACE NON VEDERE LA JOHANSSON: 10
CONSIGLIATO A CHI: Ama Woody Allen e pochi altri

venerdì 1 febbraio 2008

FACTORY GIRL

E dopo l' entusiasmante viaggio tra i dinosauri di Leo torniamo al presente.
O quasi.
Fermiamoci a una quarantina d'anni fa.
Fermiamoci ai "favolosi" anni '60.
Fermiamoci agli anni '60.
Fermiamoci.



Sui titoli di coda ero immobile.
Silenzioso e con lo sguardo fisso sullo schermo su cui passavano le testimonianze delle persone reali che hanno conosciuto la vera Edie.
Cosa dire di un film del genere?
Ci sono poche pellicole che mi lasciano senza parole: i capolavori per cui vorrei un traduttore in parole delle mie emozioni, i film brutterrimi che appena finiti non capisco se era una presa per il culo o cosa e i lungometraggi come questo.
Pellicole per cui non so trovare le parole.
Non perché mi abbiano colpito particolarmente, emozionato, schifato, abbattuto.
Semplicemente perché non so davvero che dire.
Di Andy Warhol e Edie Sedgwick conosco ben poco per cui eviterò sapientemente un’ analisi sulla veridicità di “Factroy Girl”, anche perché sinceramente non credo che nessun biopic possa realmente rispettare il personaggio rappresentato.
In fondo si tratta di cinema.
E un po’ meno in fondo si tratta di biopic.
E, come mi raccontò un mio professore una volta, in fondo da un gangster movie non ci si aspetta la rappresentazione della realtà cittadina americana degli anni ‘30.
Ci si aspetta piuttosto il rispetto delle regole del gangster movie che se tradite faranno storcere il naso a molti.
Potrebbe forse non essere così per un genere come il biopic che oggi risulta essere molto più rigido di tanto altro cinema?
Al di là delle vicende personali di ogni grande personaggio portato sullo schermo che possono essere le più disparate si richiede al genere in questione un certo buonismo di fondo che cerca di convincerci dell’ innocenza del personaggio in ogni suon guaio, un grande e tragico amore, un attore/ attrice un po’ somigliante all’ originale che faccia un gran lavoro di imitazione anche nei gesti e nei movimenti e una storia che metta in risalto l’ importanza dei traumi giovanili sulla vicenda seguente.
Insomma in questo caso si tratta di una ragazza ricca con gravi traumi infantili (il padre amante e il conseguente “soggiorno” in un manicomio chiamato benevolmente casa di cura) che realizza il suo sogno divenendo un icona pop del “cinema” di Andy Warhol e del suo successivo decadimento dovuto all’ abuso di alcool e droga (e ovviamente all’ amore tragico) fino alla ripresa finale e alla conseguente morte che però ci viene solo raccontata.
A differenza di altri film del genere, però, la storia di Edie si intreccia con quella di Andy Warhol, interpretato da Guy Pierce, che si mostra in tutta la sua anima fanciullesca: ancora accudito dalla mamma e incapace di instaurare un’ amicizia adulta con Edie che viene abbandonata alla prima visione di lei con un altro uomo, proprio come farebbe un bambino con la sua amica del cuore.
Due storie quindi.
Quasi due film intrecciati tra loro che trovano nella particolare regia di Hickenlooper la sua particolarità.
Scene in un bel bianconero che rimandano molto alla prima idea del regista sul progetto documentario che aveva in mente per questa storia, fotografia leggermente sporca da film anni ’60 e alcuni momenti un po’ sfocati e ballerini da effetto droga abbinate ad una colonna sonora non troppo invadente ma molto adatta ai tempi completa il tutto.
Già, il tutto.
Ma come risulta questo tutto?
Ecco, è questo il punto in cui mi blocco: non lo so!
La pellicola tanto pubblicizzata per la presenza di Andy Warhol non fa che analizzarne un brevissimo periodo artistico e un una minima sfaccettatura del carattere, non riesce a colpire particolarmente sul piano delle emozioni e su quello scandaloso (se cercate scandalosi nudi o chissà quale scena di droga rimarrete delusi) e anche tecnicamente, nonostante gli sforzi del regista, non si fa poi così ricordare.
Il film è ni.
Non è ne carne ne pesce.
E se vi viene in mente qualsiasi altro modo di dire che ci assomigli potete applicarlo a “Factory Girl”.
La sufficienza più che piena viene raggiunta grazie a Sienna Miller e Guy Pierce che ce la mettono davvero tutta nel compito gravoso e, a mio parere, se la cavano egregiamente senza risultare grotteschi o esagerati nelle loro personificazioni.
In conclusione io dico comunque un film da vedere anche se senza troppe pretese: il cinema non è fatto solo di capolavori o brutture.
Queste vie di mezzo sono forse le pellicole migliori da cui costruire i veri capolavori: comprenderne le mancanze, carpirne l’ essenza e trasformarli in qualcos’ altro in grado di colpire veramente lo spettatore per lasciarlo questa volta senza parole per le troppe emozioni.
REGIA: George Hickenlooper
ANNO: 2007
GENERE: Biopic, drammatico
VOTO: 6, 5
QUANTO FA RIDERE IL FATTO CHE IL MUSICISTA AMANTE DI EDIE COSì SIMILE A BOB DYLAN NON VENGA MAI CHIAMATO PER NOME PER VOLONTà DELLO STESSO CANTAUTORE:10
CONSIGLIATO A CHI: Vuole vedere un biopic che vorrebbe essere diverso ma che ricade comunque all’ interno del genere.